I coltivatori di pace in Afghanistan
La storia straordinaria che vi raccontiamo oggi ha i colori caldi dell’Afghanistan, il profumo dello zafferano e la voglia di pace e benessere che ha mosso un gruppo di veterani Statunitensi a compiere la propria rivoluzione umana. Kimberly Jung, Keith Alaniz, Emily Miller, Benjamin Bines, Carol Wang, sono ex marines e soldati degli Usa che hanno combattuto in Afghanistan o Iraq, finché hanno deciso, ancora giovani, di deporre le armi e fondare insieme una società per la produzione dello zafferano in Afghanistan e il suo commercio verso gli Usa. Dell’azienda fa parte, come socio, con quota pari agli altri, anche Abdul Shakoor Ehrarri, un agronomo Afghano di Herat, specializzato in irrigazione e progetti di sviluppo nella sua terra, dove coordina il lavoro degli agricoltori. Come spiegano nel loro sito internet, gli ex soldati hanno capito che avrebbero combattuto meglio i Talebani con la zappa, piuttosto che con fucili e bombardamenti. Una delle principali fonti di guadagno dei Talebani proviene infatti dalla coltivazione di oppio, che però non riesce minimamente a portare benessere alle popolazioni rurali, sfruttate e sottopagate. Un ettaro di terreno coltivato ad oppio rende in media 4500 euro agli Afghani, mentre un ettaro coltivato a fiori di zafferano porta introiti superiori a 12.000 euro. L’esercito Americano e quello Italiano, da anni stanno cercando di sostituire alle coltivazioni di oppio quelle di zafferano. Si tratta di una delle spezie più pregiate al mondo. In Italia costa in media 500 euro al kg. Negli Usa lo zafferano può valere ben 1.500 dollari al chilo. Una cifra davvero incredibile, specie se si pensa a quanto guadagna mediamente un coltivatore Afghano nel suo paese: circa 500 dollari all’anno.
Tra gli obiettivi dichiarati dell’azienda, c’è quello di riuscire almeno a triplicare il reddito degli agricoltori, attraverso un commercio equo e solidale, che punti sulla qualità e sul rispetto dei diritti umani. Keith Alaniz e Kimberly Jung sono stati i primi del loro gruppo ad intravvedere, nella coltivazione, un’opportunità di business ed hanno coinvolto gli altri. La forza della rivoluzione profumata ai fiori di zafferano, sta proprio in questo: nella cognizione che Afghani e Americani possano lavorare insieme ad un progetto, d’iniziativa privata, in grado di portare guadagni per tutti, nel rispetto della Madre Terra.
Inoltre, l’80% dei coltivatori è costituito da donne, che non avrebbero potuto lavorare autonomamente con i Talebani e che invece oggi hanno un impiego dignitoso. Anche l’Italia ha aiutato l’Afghanistan ad incrementare le coltivazioni di zafferano, con un’operazione benefica, che ha portato i nostri soldati a distribuire ingenti tonnellate di bulbi nella provincia di Harat (la stessa dove opera oggi l’azienda Americana in questione). Il Ministero della Difesa Italiano ha stanziato 330.000 euro a favore del progetto, nel 2010. Un’iniziativa lodevole, che ha funzionato in una prima fase, convertendo le colture d’oppio e offrendo nuove possibilità di lavoro alla vessata popolazione Afghana. Tuttavia, l’Italia, sembra aver puntato sull’assistenzialismo, senza guadagnare a sua volta dall’operazione, o quanto meno rientrare dei fondi stanziati, attraverso particolari iniziative di commercio e import-export dall’Afghanistan. Probabilmente anche perché il nostro Paese è uno dei maggiori produttori di zafferano: possiamo vantare colture in Sardegna, Marche, Abruzzo, Umbria, Toscana; è bene non ostacolare le produzioni nazionali, tuttavia, non dobbiamo temere la concorrenza, perché la richiesta di spezie sembra essere in costante aumento nel mondo. Il mercato alimentare è quello che meno risente della crisi globale, che sta investendo tutti i settori dell’economia.
L’impresa statunitense degli ex soldati ha carpito le possibilità d’ investimento e ha dimostrato che dalla collaborazione può aumentare la ricchezza di tutti: Medio Orientali e Occidentali. L’azienda si occupa, infatti, di produrre ad Harat e poi commercializzare lo zafferano negli Usa, dove costa come una droga ma invece d’essere una sostanza dannosa, è un vero toccasana per la salute. La spezia, infatti, oltre ad avere il gradevole sapore che conosciamo, pare possa vantare una serie di effetti positivi sull’organismo. Secondo la tradizione, migliora la circolazione sanguigna, regola le mestruazioni nelle donne, è utile nei disturbi digestivi, come sedativo della tosse e dell’asma, riduce la febbre, allevia depressione e stati d’ansia, è un colorante alimentare naturale. I coltivatori di pace ci hanno visto lungo. Chissà che nome daranno, loro, a quello che noi chiamiamo “risotto alla Milanese”… Un dato è certo: è questa la globalizzazione che ci piace. (M.I.)